Applausi
Caldo ne faceva. Eccome se ne faceva, in quel giorno e a quell’ora. Non era neppure una cosa di cui lamentarsi: se non fa caldo il 2 di luglio, quando dovrebbe farlo? Il sudore correva in rivoli sulle schiene e vi si incollavano sopra le magliette più poverelle e qualche camicia candida con le maniche arrotolate. Goccioline scivolavano rapide anche sulla fronte e ai lati del collo, in qualche caso affogando perfino dentro gli occhi e così i contorni si facevano tremolanti, confusi in una nebbia afosa. E se qualcuno veniva rapito dal sonno, poco importava che si trovasse al Caffè. I clienti, sempre gli stessi, erano pochi in quell’ora in cui il mezzogiorno sembrava come sospeso nell’attesa di tuffarsi nel pomeriggio inoltrato, quando un sospiro d’aria fresca scendeva giù da Magnanella, abbracciando la piazza e intrufolandosi dentro i vicoli. Era allora che i più inspiravano quell’arietta refrigerante per buttarla poi fuori con la giusta lentezza pensando che sì, anche per quel giorno la canicola più feroce era passata e la notte, oltre che consiglio, avrebbe portato pure sollievo.
Intanto, però, c’era da aspettare che passassero quelle ore di primo pomeriggio e di caldo feroce, quando avrebbero poi ceduto il passo alla festa che tutti aspettavano e Maria, regina di Teramo. sarebbe uscita benedicente dalla sua casa portata a spalla con devozione. Erano ore infinite da far passare, erano la cornice intorno al quadro di una giornata sulla cui tela splendeva l’immagine di Maria e anche l’afa consumata là, sotto i portici di Fumo, ne faceva parte. Come i giri sfrenati sull’autoscontro di Catellani in mezzo alll’odore tostato delle noccioline. O come il vecchio che se ne stava fermo davanti al Santuario con una cassettina di legno scolorito appesa alle spalle da due cinghie logore mentre il becco di un pappagallo di un verde sfacciato prendeva un fogliettino di carta piegato per consegnarlo con delicatezza nel palmo della mano di chi, in cambio di pochi spicci, volesse conoscere il suo futuro, vicino o lontano che fosse. Tutto questo, però, sarebbe successo più tardi. Adesso c’era ancora la canicola pomeridiana da superare. Boccheggiando. Ansimando.
Troppo caldo anche solo per alzarsi da quelle sedie, almeno fino a che il sole non si fosse abbassato sotto la linea dell’orizzonte e l’afa avesse iniziato ad allentare la presa, invece di stare lì a ristagnare, ferma e bollente. Gli specchi del Caffè riflettevano le facce sfatte, mentre gli sguardi buttati sul corso non incrociavano anima viva. Tra un paio d’ore, però, sarebbero usciti tutti, ma proprio tutti, per omaggiare la Madonna. Le donne occupate a portare a spasso gli abiti della festa, con le gonne che parevano corolle capovolte. Gli operai con la magliette buone a tre bottoni, e quelli che operai non erano perfino con addosso la giacca e il fazzolettino di batista che spuntava fuori dal taschino. Dentro al Caffè la luce assolata di quell’ora particolare faceva scintillare sulle mensole un tripudio di bottiglie di liquore.
Quella rotonda e panciuta della Vecchia Romagna Etichetta Nera. Quella gialla e sottile dello Strega e quella buia del Fernet Branca, il verde intrigante della Centerba, l’ambra della genziana e pure certe bottiglie quadrate con il tappo di vetro sfaccettato che, a guardarle fisso, ampliavano ancora di più la luce e il caldo. I cornetti dentro i vassoi sembravano ancora più molli e più gonfi, forse per la magia di quella ricetta arrivata da Napoli insieme con il pasticcere, ripieni com’erano per metà di crema gialla profumata di cannella e, non si era mai visto !, per l’altra metà di golosa marmellata d’uva. L’avvocato, prima di entrare, si studiò bene la figura nella vetrina del Caffè. E quello che vide non gli dispiacque. Gli anni, dopo i quaranta, avevano preso a rotolarsi con la rapidità di una slavina e lui non si era neppure accorto di quanto passassero veloci i Natali e i Ferragosto.
Però era ancora un bell’uomo e, pure stavolta, era sicuro che alla festa avrebbe incrociato gli occhi di qualche bella donna. Certo, non faceva più le stragi di cuori dei trent’anni ma bisogna accettare la vita che passa e bersela, a sorsi, fino alla fine. Spinse la porta, entrò e rispose con un cenno della testa e con il suo mezzo sorriso al piccolo inchino ossequioso del barista, accaldato e smosciato pure lui dietro al bancone lucido, dentro a una camicia bianca un filo ingiallita e un cravattino nero allentato. L’avvocato restituì il sorriso, allargandolo, al coro dei “Buonasera, avvocà” salito tra i tavolini e le sedie. «Cosa ordina l’avvocato nostro? Fa nu calle nir, s squaje...». L’avvocato indugiò con lo sguardo sulle bottiglie ad una ad una, poi passò alle birre e infine indagò il frigo dei gelati. «Per me un bicchiere di acqua del Ruzzo, bella fresca», decise. Era fatto così: aveva il coraggio di essere esattamente com’ era, senza sforzarsi di apparire altro ed era questo, più del palazzo di famiglia con le volte a carrozza e anche più delle belle donne, che faceva consumare d’invidia gli invidiosi. Dal tavolino in fondo alla sala partì lento e secco il battito di due mani. Altre si unirono con lentezza. Perché lui, l’avvocato, era proprio così. Un tipo da applausi.