L’acqua di San Giovanni
«Che belli che sono i fiori», pensava Lucia e quasi le dispiaceva la sola idea di doverli raccogliere. Ma era per una giusta causa e non li avrebbe fatti soffrire, non era il tipo. Li avrebbe sfilati dalla terra piano piano con le sue dita che, sotto le unghie, avevano già un filo di terra compressa. Il fatto è che a 13 anni era arrivato il momento che lo facesse anche lei. Avrebbe dovuto aspettare che il sole scendesse sotto la linea dell’orizzonte, avrebbe fatto finta di andare a dormire e poi sarebbe uscita zitta e muta come una faina quando fa strage di galline.
Doveva andare a raccogliere i fiori. Quella notte o mai più, se non voleva che dovesse passare poi un altro anno. Perché la notte di San Giovanni veniva solo una volta l’anno. A cavallo tra il 23 e il 24 giugno. E quel giorno lì, era proprio il 23. Sua nonna le aveva raccontato che quell’acqua, con un’anima di fiori e di erbe, era un’acqua magica. Fatata. Una specie di pozione. Avrebbe portato felicità, fortuna, amicizia e pure salute. Ma lei, Lucia, avrebbe dovuto fare tutto per bene. Come si deve. Intanto raccogliere i fiori. Poi metterli nel catino dove si lavava il viso, quello di ceramica bianca con un bordo di alberelli blu. E tenere il catino, l’acqua e i petali e le erbe fuori per tutta la notte. Al chiaro di una luna fredda. Alle goccioline della prima rugiada. Allora si sarebbe alzata e con quell’acqua felice, benefica e profumata si sarebbe bagnata il viso e le mani. Anzi no, di dormire non se ne parlava proprio. Ma dimmi un po’ tu come si fa a dormire quando sai che il mattino successivo porterà con sé tanta bellezza e magìa? Lucia prese da un vecchio catino una piccola parte dell’acqua che era andata a prendere, alla fontanina con la conca, come le aveva detto di fare sua madre, e che in quel catino aveva nascosto sotto il letto. Lucia guardò il calendario della farmacia che teneva appeso in cucina. Ultimamente le capitava, ma solo certe volte, di sentirsi confusa, come se si trovasse dentro una nebbia dove i piani si confondevano, le facce si sfumavano e le pareva ancora di stare su, a Ornano. Era San Giovanni e lei non se ne era neppure accorta. A quasi ottanta dei suoi lunghissimi anni, però, poteva capitare. Appoggiandosi con la mano al muro arrivò al balcone e guardò nei vasi.
La fortuna di quella casa popolare in un quartiere popolare era che i suoi vasi, sul balcone, prendevano il sole nei tempi giusti e nelle dosi giuste. Mai troppo, mai poco. Lucia raccolse qualche petalo rosso del geranio, ne tolse qualcun altro bianco screziato di un rosso cupo dall’altro geranio che era il suo preferito, sfogliò un fiore della boungavillea che era il suo orgoglio e una manciata di petali della cascata delle sue spettacolari petunie. Aggiunse due foglie di salvia, due di maggiorana e due di basilico che erano il suo orto sul balcone e pure un rametto del rosmarino che usava per le patate al forno. All’improvviso le salì la nostalgia per non avere nè fiordalisi, né papaveri, né camomilla e specialmente quei fiorellini piccoli e senza nome che crescevano virtuosi in mezzo alla polvere ai bordi della strada, perché le cose - anche quelle più piccole e insignificanti - quando capita che non le hai più, finisce che poi ti mancano. Mise tutto, petali e erbe aromatiche, nella ciotola di plastica un po’ ingiallita dell’insalata ma poi ci ripensò e, a fatica, tirò fuori dalla credenza la zuppiera bella del servizio di nozze e li spostò lì dentro.
Girò la manopola del rubinetto e l’acqua iniziò a scendere. Lucia la guardava fisso come incantata, così fisso che non pareva fosse più nemmeno acqua ma un sottile bacchetta magica, trasparente come il cristallo e appena un po’ tremolante. Non le piaceva sprecarla, l’acqua. Se ne portava ancora dentro alle ossa la fatica che vedeva fare alle donne quando era una bambina e la prima fontanina dell’acqua “de lu Ruzz” lassù, a Ornano, era stata un miracolo tipo quelli che raccontava don Paolo, nella predica della messa la domenica mattina. Poi, appena era cresciuta un po’, era toccato anche a lei andarla a prendere, l’acqua. Un passo avanti lei, un passo dietro Misciù il gatto del suo cuore. Adesso, però, lei aveva quasi 80 anni e pensava alla bambina che era stata, all’acqua nella conca. Ai fiori. Alla fontanina. Al caldo e al sudore. Alla ciambella del cercine sulla testa. A quanto tempo era passato. Adesso la Lucia bambina era diventata una prugna vecchia e rugosa. Solo gli occhi, se li guardavi giù giù, proprio in fondo li ritrovavi come erano stati, con lo stesso stupore. Per fortuna che adesso l’acqua di San Giovanni se la poteva preparare anche così.
Senza uscire, dentro casa. Quella stessa casa in cui i suoi figli erano cresciuti e dalla quale poi se ne erano andati e ancora li sentiva che ridevano quando lei gli raccomandava di non sprecarla l’acqua, senza motivo. Ma che ne sapevano loro della fatica che si faceva a trasportala fino a casa su per il paese e della conca di rame scuro e ammaccato che adesso stava in salotto e dentro c’era una pianta. Lucia fissò dentro la zuppiera. Fissò l’acqua, fissò i petali che galleggiavano e, galleggiando, la ipnotizzavano. Quella volta l’acqua “de lu San Giuvanne” lo avrebbe fatto, il miracolo. Ci si sarebbe lavata le mani e le avrebbe tolto un po’ dei dolori e dei formicolii. E avrebbe fatto pure il miracolo di far tornare indietro, per un momento soltanto, per il tempo utile a specchiarcisi dentro, la bambina che era stata la notte di San Giovanni di tanti, troppi anni prima. Si sedette al tavolo della cucina, con la cerata disegnata dai girasoli. La notte era lunga ma, stavolta, voleva quell’alba speciale tutta per sé. Tra i piedi chiusi dentro le pantofole di pezza le sembrò di sentire Misciù, tornato chissà da dove, strusciarsi e fare le fusa. Fu allora che il presente si mischiò al passato lontano e i due piani del tempo, il presente e il ricordo, si fusero. Lei ci cadde dentro e ci rimase invischiata, senza trovare più la forza di risalire a galla. E si addormentò del suo sonno più lungo.