La città dell’acqua
“Come un sogno di colpo avverato/ che ci infonda gaiezza e stupore/ tal l’Abruzzo pel nobile core/ l’anelato desìo si compì”.
Niente da fare. Ai suoi ragazzini, chiusi dentro i grembiuli neri con le facce che spuntavano dai colletti bianchi come dei fiori pallidi e strambi, quelle strofe proprio non volevano entrare in testa. O meglio, entrare ci entravano ma subito dopo se ne uscivano. Passavano con disinvoltura da un orecchio all’altro.
Erano giorni e giorni che provavano tutta la mattina perché quei benedetti versi si fissassero nelle loro testoline che sembravano all’improvviso disabitate. «Desìo a casa mia non l’ho sentito mai dire a nessuno. perciò io non me la ricordo questa parola», aveva messo in chiaro Paolino. Perchè loro, i ragazzini, a parte l’Inno di Mameli e quello dei balilla, di altri Inni proprio non ne conoscevano.
Seduti sui banchi di legno scuro, lei ci provava a fargli entrare in testa almeno la prima strofa. Ma era un’impresa disperata. Nell’aula giallina, dalle finestre aperte e da dietro le tende pesanti, entravano l’aria di maggio e un pezzo di cielo appeso tra i tetti stretti delle case. Insieme al profumo di primavera, però, sgomitava anche quello intenso e goloso di pasta e patate che, mistero! ogni giorno saliva da una qualche cucina del quartiere. E chissà che non fossero proprio i profumi e gli odori e la primavera e le patate che cuocevano insieme alla pasta a distrarre così tanto i ragazzi.
Il fatto è che lei era una maestra giovane giovane, arrivata a Teramo dopo essere passata per un paio di inverni gelidi in scomode destinazioni in montagna. Qualcosa, però, la faceva rimanere diversa dalle altre maestre. Sorrideva con gli occhi prima ancora che con le labbra e alle orecchie le dondolavano un paio di piccole perle pendenti che si era regalata con il suo secondo stipendio. E solo perché il primo aveva voluto lasciarlo ai suoi, poggiato sul tavolo della cucina con delicata riconoscenza per tutti i 18 anni in cui le avevano dato da mangiare, cucito vestiti di cotone a fiorellini, comprato due paia di scarpe che non fossero quelle che a sua sorella non entravano più. Forse era proprio per quella sua aria allegra, e per il sorriso che la abitava dentro, che i ragazzi adesso non rispondevano come avrebbero dovuto. Però stavolta non c’era da scherzare. Volere o volare, quell’Inno bisognava che lo imparassero. Tutti. E in fretta. Amalia, Rosaria. Emilia. E pure Vittorio. Era un punto di onore. La storia era semplice.
In città era arrivata l’acqua e bisognava che i ragazzi, i suoi ragazzi, capissero l’importanza della cosa. Capissero da dove arrivasse quel mare silenzioso di acqua e quanta fatica e sudori avesse chiesto costruire quell’ Acquedotto che faceva impressione soltanto a pensarne la potenza. I ragazzi avrebbero dovuto comprendere quanto fosse importante vivere in una Città dell’acqua. E non si parlava di Venezia con le gondole, i piccioni e il Canal grande. Invece, niente da fare.
Non andava meglio neppure con le strofe successive che pure, a suo giudizio, suonavano bellissime e piene di forza con quel tempo di marcia impresso dai tasti del pianoforte. “Dalle viscere immense, secrete/ del Gigante che onora l’Abruzzo/ l’acqua fresca, sublime del Ruzzo/a paesi e cittadi fluì”. “Cittadi, signorina maestra, io non l’ho mai sentito dire. Ma che parola è?», le stava chiedendo qualcuno dai banchi. Prese il registro marrone rilegato di nero, li guardò tutti. Stavolta in silenzio, da sopra il registro. Uno per uno. Voleva capire su quale muro, alzato dentro al loro cervello, rimbalzassero i versi.
Sulla cattedra c’erano sassolini, ceci e fave che venivano in soccorso per fare i calcoli: ne prese in mano qualcuno e iniziò a farne delle montagnole. «Il 9 maggio verrà inaugurata la fontana. È una fontana monumentale. Qualcuno di voi sa cosa significa? La fontana ricorderà per sempre ai teramani che questa è la Città dell’acqua per il suo Acquedotto».
Adesso, arrivando in piazza, la prima cosa che tutti avrebbero visto sarebbero stati proprio quei getti di acqua freschissima. E dietro quell’acqua sapevi che c’era la maestosità del profilo del Gigante addormentato nel silenzio del cielo, la fatica e il sudore di picconi e badili in aione nei cantieri e poi l’acqua. Cristallina e freschissima da bere. Acqua a volontà, così tanta da farla zampillare adesso anche nelle enormi tazze della fontana come se fosse un virtuosismo. Una danza. E invece no che non lo era, con ancora la fatica nelle braccia di tanti operai e nella testa il sogno dell’acqua.
Ecco, era questo che doveva trasmettere ai ragazzi. Il resto sarebbe venuto da sé.
Avrebbero imparato le strofe, certo che sì. Avrebbero cantato e brillato, mentre la fontana buttava acqua nella grazia e nella forza della musica. Quella dell’Inno. Sarebbero stati anche loro forza e luce, per accogliere il nuovo che arrivava. Toccava a lei far capire la grandezza di quell’acqua. Era o non era la maestra? «Su ragazzi, ricominciamo. Da capo».