Umberto e le stelle
Umberto si guardò le ginocchia scorticate che uscivano fuori dai calzoni corti di stoffa grigia e, con le braccia, se le strinse ancora di più al petto mentre fissava il cielo così basso sopra la sua testa. Aveva camminato a lungo da solo sul ciglio della strada, non avrebbe saputo dire per quanto tempo ma di due cose era invece certo. Primo, che non si sentiva affatto stanco, anzi. Secondo, che se non lo avesse già fatto sarebbe stato comunque pronto a farlo. E non importava quali potessero essere le conseguenze, quando fosse tornato a casa chiudendosi piano la porta alle spalle. Lo aveva sentito dire in modo chiaro da persone serie, come diceva suo padre, e da più di una, perciò significava che era vero: quel posto, lassù dove dove era arrivato e dove si trovava adesso tra i pini e i cipressi, era il posto più vicino alle stelle che si potesse trovare da quelle parti.
Per questo ci era andato e adesso se ne stava lì. Da solo. Di notte. Ma non aveva per niente paura: semplicemente doveva portare a termine quello che c’era da fare. Non che fosse certo della riuscita di quella sua azione, studiata con la stessa accuratezza minuziosa e strategica di un generale che stende le mappe e studia l’attacco al nemico. Il suo piano sarebbe potuto riuscire, ma anche no. Però in questi casi bisogna sempre provarci e agire. «Meglio avere rimorsi che rimpianti», risentiva ancora nelle orecchie la voce di sua madre che lo ripeteva mentre stendeva i panni con rabbia o girava il sugo con la cucchiarella di legno scuro. E adesso che non poteva più dirlo, buttata com’era in quel fondo di letto, con la faccia più bianca del lenzuolo bianco, a lui il ricordo di quelle parole aveva illuminato la strada. Se le risentiva dentro la testa, mentre camminava e camminava.
Sudato davvero come un pesce, anche se adesso che la notte era diventata davvero notte gli sembrava quasi di sentire fresco. Pure se era agosto. Pure se era la notte di San Lorenzo. Perché di stelle, quella notte, ne sarebbero certo cadute e lui doveva solo farsi trovare lì pronto a guardarle come meglio poteva, più da vicino che poteva. Pronto a chiudere gli occhi e a esprimere il suo desiderio alla prima stella che fosse precipitata giù. Per questo era salito su su, fino alla collina. Alla Specola, come gli avevano spiegato che si chiamava quel posto. Perchè da lì, nella campagna ancora più buia, si vedevano così bene le stelle e gli occhi, ogni tanto, gli scappavano sulla sagoma della cupola bianca che gli sembrava immensa. E, forse, la cupola dell’Osservatorio immensa lo era davvero. Umberto di qualche stella conosceva il nome perché gli era sempre piaciuto osservarle nel cielo, di notte. Riconosceva ad un colpo d’occhio quale fosse Venere che, però, non era una stella ma un pianeta però brillava lo stesso. E poi Sirio che splendeva, eccome se splendeva, di una luce fredda anche nelle notti d’inverno. E la via Lattea che, in quelle notti d’estate, era come non mai polvere di luce, Ma a lui adesso non stava lì per le stelle che pure gli piacevano tanto e ci perdeva dietro le notti a guardarle. Adesso aveva bisogno di una stella miracolosa. Una stella che scivolasse giù dai piani del cielo e cadesse. Perché quella era la notte giusta. Perché aiutasse sua madre ad alzarsi da quel letto schifoso. A stamparsi di nuovo in faccia il sorriso. A passargli ancora la mano in mezzo ai capelli bagnati per sistemarglieli prima che lui andasse a a scuola, la mattina.
Umberto fissava il cielo, poi gli occhi gli scappavano sulla cupola bianca. La febbre era scesa dalla Montagna dei fiori, là dove da mesi sua madre stava a servizio. Tutta colpa dell’acqua infetta da quelle parti, quella che aveva usato per bere e per lavare il cibo, aveva spiegato il dottor a suo nonno mentre la nonna piangeva in cucina. Aveva raccontato della febbre, della tosse che scuoteva sua madre e non le faceva inghiottire niente. Umberto avrebbe voluto vederla, sua madre, fosse stato anche solo per tenerle la mano seduto a fianco del letto. Esattamente come aveva fatto lei quando lui era piccolo, la volta degli orecchioni e quella del morbillo. Ma non era proprio possibile. Chissà se sua madre ce l’avrebbe fatta a tornare a casa. Umberto fissò il cielo. Erano ore, oramai, che lo stava facendo. Tra un po’ immaginava che il buio sarebbe a poco a poco impallidito e anche quella, forse, sarebbe stata una risposta del cielo nel momento in cui non gli sarebbe più stato possibile affidare ad una stella cadente il suo desiderio più grande. Fu proprio a quel punto, mentre iniziava a sentirsi le palpebre sempre più pesanti, che nel buio gli apparve quella specie di lampo. Una frazione di secondo e la scia luminosa precipitò giù e si perse nella notte. il buio inghiottì quella coda di luce. Umberto fece appena in tempo a dire alla stella di cosa aveva davvero bisogno prima che tornasse il buio basso, bassissimo sopra la sua testa. Tra il profumo dei fiori notturni e il canto fresco dei grilli chiuse, stavolta davvero, le palpebre. Umberto non lo seppe mai, ma mentre lui crollò sotto il peso del sonno, della stanchezza e della tensione, di stelle gliene cadde attorno un grappolo.